House of Cards sembra Piccole donne, paragonato a Narcos – la nuova serie prodotta da Netflix. Marco Polo, Sense8, Club De Cuervos, e ora Narcos, sono un atto d’amore da parte di Netflix, il tentativo di offrire contenuti fruibili anche da chi non è nato nella terra del bacon fritto a colazione e della Pepsi alla ciliegia iniettata direttamente in vena.

Al contrario però di prodotti come Orange is the New Black, il binge-watching mal si accompagna a Narcos. Questo perché la serie, diretta da José Padilha (RoboCop 2014), è incentrata sull’ascesa (e conseguente caduta) del narcotrafficante Pablo Escobar, l’uomo che rappresenta per la cocaina ciò che Netflix rappresenta per lo streaming. In altre parole, questa è la storia della sanguinosa guerra tra la DEA (American Drug Enforcement) e il cartello di Medellìn.

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A metà strada tra The Wire e Quei bravi ragazzi, Narcos può vantarsi di essere la nuova punta di diamante di Netflix soprattutto grazie a una sceneggiatura scritta con precisione chirurgica da Chris Brancato (la cui pagina IMDb vale più di qualunque spiegazione) che non solo convince nel modo in cui rappresenta i complicati equilibri tra la polizia colombiana, i militari, il governo, i narcotrafficanti e le cellule antigovernative come la M-19; ma riesce, al pari di True Detective e Breaking Bad, a rivoltare la moralità come un pedalino e costringere lo spettatore a esercitare un’elasticità mentale, nel giudizio, molto maggiore di quella richiesta al pubblico di Forum.

Ho tirato in ballo quella quella manna dal cielo che fu Breaking Bad, quindi vi faccio una domanda. Ricordate i dialoghi in spagnolo di Gustavo Fring? Io sì. La sola cosa che non gli ho mai perdonato è il finto accento, un MAPORCAMISERIA da scrivere tutto maiuscolo e tutto attaccato, l’equivalente messicano di quando Stanlio e Ollio dicevano parole come stiu-pìdo e arrivedorci. Ecco, in Narcos questo non succede nemmeno per un breve momento, perché chi parla spagnolo non si è limitato a memorizzare una sequenza di dittonghi e suoni privi di significato, come il canto di un uccello, ma parla spagnolo sul serio, con l’accento colombiano e l’alito cattivo che odora di empanadas e Inca Kola. empanadas e Inca Kola. Certo, basta un rapido giro su Twitter per trovare chi lamenta il fatto che l’accento di Escobar non sia abbastanza “paisa”, ma a nessuno piacciono quelli che si lamentano su Twitter, quindi a posto così.

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Dettagli come questi sono i tasselli che vanno a completare una sceneggiatura, una fotografia e una recitazione straordinarie, mettendo da subito in chiaro una cosa: Narcos non è semplicemente un sottofondo televisivo per le vostre sessioni di polliciate sull’iPhone, è un’opera molto più complessa. Senza girarci troppo attorno, questa è una serie che mira a esplorare il contesto economico e politico del sud america negli anni ‘80 attraverso dieci episodi che ti piazzano davanti agli occhi le conseguenze (spesso nocive) della politica estera statunitense, per aiutarti a comprendere, almeno in parte, le dinamiche del rapporto amore-odio tra Colombia e Stati Uniti. 

Wagner Moura (uno di famiglia per chi ha visto Tropa de Elite) interpreta un Escobar per il quale varrebbe anche la pena tifare, non fosse per il numero di esseri umani che, la storia c’insegna, si è preso il disturbo di ammazzare durante il suo regno fatto di coca e sangue. Per non dimenticare, la serie stessa utilizza con frequenza spezzoni televisivi tratti dai notiziari di quel periodo, aggiungendo profondità all’orrore messo in scena.

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Nonostante la storia la scrivano i vincitori, non ci sono vincitori in questa storia. Sappiamo che alla fine fu la crescita economica del cartello, e non la preoccupazione per gli effetti devastanti della droga, a far intervenire gli Stati Uniti. E sappiamo anche come fu risolto il problema: una grandinata di proiettili, un funerale al quale hanno assistito 25.000 persone e miliardi di riferimenti culturali a uso e consumo del mondo rap. Nelle storie migliori, però, non conta dove stiamo andando, ma come ci stiamo arrivando. E Narcos non è da meno.



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Flavio De Feo

Vive a Roma, dove lavora in qualità di traduttore e interprete. Scrive di musica e film in giro per il web e collabora occasionalmente con alcune testate cartacee. Ha anche un blog: achepianova.tumblr.com.

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